Di metallo le lamiere dell’auto, di metallo la musica, di metallo il chiodo fisso dei miei Metal-amici: testimoniare il proprio affetto al dio delle quattro corde, scattarsi un’istantanea emotiva davanti alla lapide di Cliff Burton, il fu bassista dei Metallica. Suoni Metal nelle brume del paesaggio nordico, un mix dal vago sapore decadente. Mi aggrego.

È estate, tingiamoci i capelli: Nico di rosso, Ema di azzurro, Cobra di verde, Marina di arancio e io? Fucsia. Come la mia giacca, come l’evidenziatore con cui tracciamo il percorso sulla cartina geografica. Gli altri colori vanno a sud, verso il sole, io decido di andare a nord, verso la bruma.
IL-MARE-SOPRA-LA-TESTA
Chi ha ideato il ponte di Øresund era certamente un visionario con il gusto delle emozioni forti, la strada si inabissa e viaggi con il mare sopra la testa; mi sembra di sentirne tutto il peso. Il ritmo di Ride The Lighting a paletta dà al passaggio sottomarino un certo sapore epico. “Sbarchiamo” nella terra dei vichinghi con vibrante emozione.

“IL REGNO DELLA SALVEZZA NON PUÒ PORTARMI A CASA”
Ci fermiamo, dopo 1698 chilometri, esattamente nel luogo dove il bus dei Metallica è uscito di strada, nel 1982. Erano in tour per promuovere l’album Master of Puppets ed erano strafatti di alcool e droghe, anche l’autista, perché ci “stavano dentro, troppo dentro” mi dice il mio Metal-autista. Tutta la band ne esce illesa tranne Cliff, che in quel momento stava componendo una canzone. Aveva 24 anni. Sulla sua lapide c’è una scritta: “Cannot the kingdom of salvation take me home” [Il regno della salvezza non può portarmi a casa]. I miei compagni di viaggio rievocano la leggenda: Cliff Burton amava Beethoven e adorava Bach ed era appassionato di sonorità barocche; diventò bassista in memoria del fratello morto giovane, era costantemente impegnato a migliorare la propria musica; era forte nelle improvvisazioni, di più quando fumava “erba”; odiava le falsità perché era profondamente autentico; era gentile e sensibile e aveva fiducia nel prossimo; saliva sul palco con una normale camicia e jeans a zampa di elefante; era ambizioso, ma nel modo giusto; era un sognatore; aveva fluenti capelli rossi.

UNA-BESTEMMIA-POP
Decidiamo di andare ancora più a nord. Dormo, mi sveglio, ridormo, mi risveglio e fuori dal finestrino scorrono i medesimi abeti e i medesimi rettilinei, le medesime nuvole. Nell’abitacolo nero con gli amici vestiti di nero mi sorge il dubbio che la mia testa fucsia sia una bestemmia Pop. La strada prosegue fra due muri verdi, il tempo sembra essersi fermato. Profumo di bosco. Il buio sotto le fronde mi fa paura, se si fermasse la macchina... Qui i paesi sono fatti di due case e due laghetti e fra un paese e l’altro vi sono decine di chilometri di foresta e, sia chiaro, quando dico “due case” non si tratta di metafora. In qualche modo però l’oceano di pini, abeti, betulle, muschi, licheni e funghi, con la sua florida umidità, mi rassicura.

METAL-SILENZIO
Miriade di laghetti. Il loro azzurro è talmente intenso che finisce con il corrompere i volti Metal-compunti. Spuntano sorrisi. Due casette rosse: ci fermiamo. Silenzio assoluto. Sarà anche ameno il paesaggio, ma un segno di vita non guasterebbe. Facciamo due passi ed eccola la vita, una vita: un tizio dietro la casa arrostisce un pesce infilzato su una bacchetta di legno facendolo girare sopra un fuoco acceso nel prato. Ci avviciniamo, l’approccio è titubante ma dopo qualche minuto vuole già mostrarci la sua moto, quella che sta assemblando con le sue mani nel garage attrezzato tipo vecchio fabbro. Bella… la moto, caratteristica direi. Vuole farci sentire anche il rombo del motore: salta in sella, fa un gran casino con l’acceleratore e imbocca deciso la strada deserta. Lo seguiamo con lo sguardo mentre si allontana con la chioma al vento. Dopo cinquanta metri la moto artigianale cambia idea e si spegne.

UN-MARE-DI-METALLO
A Capo Nord la terra, anzi il mare, sembra più rotondo, forse perché sai che aguzzando lo sguardo potresti intravedere il punto dove spunta la bacchetta del mappamondo. Giusto il tempo di scattare una foto davanti al monumento e i Metal-amici sentono la necessità di riprendere la corsa, di celebrare l’evento ascoltando Orion.

Direzione sud. Infinite curve visive su fiordi tempestosi e selvaggi. Il mare è metallo fuso. The Call of Ktulu ci fa viaggiare in una saga vichinga.

MOLESTIE-LATINE
Cresce la consapevolezza che le destinazioni sono un pretesto, la vera meta del Metal-viaggio è una corsa in auto con i Metallica. Bello.
Isole Lofoten. Il dio Metal mi concede qualche ora di libera uscita. Museo dello stoccafisso e birreria. Il barista mi dà le spalle, ha una treccia di capelli lunghi e mi aspetto sia un discendente dei vichinghi, no, è messicano; arrivato per denaro e rimasto per amore. Chiacchiere, risate e complicità da “anime sud”. Un corruttore inconsapevole.

L’intima e profonda condivisione spirituale della musica dei Metallica nello stretto abitacolo di un’auto non manca di una sua fascinazione, ciononostante, dopo migliaia di chilometri di viaggio ininterrotto solo i minuti necessari per risolvere bisogni insopprimibili, il mio fondoschiena incomincia a sollevare questioni, a far polemica con il sedile. Il paesaggio scorre da giorni nei finestrini dell’auto come le motoGp sul rettilineo del Mugello, come una canzone degli Ska-P. Comincia a girami la testa. Il ritmo mega serrato di Legalización si fa largo fra le note al titanio scagliate dalle casse e conquista la mia mente, prende possesso del mio stereo interno e inizia a diffondere senza sosta eretiche note latine, ha la caparbietà molesta di un tormentone estivo. Parole come Legalización, Resistencia, Revolution, rimbalzano negli angoli della mia testa come la pallina metallica di un flipper.
BLACK-METAL-HORROR
Sosta a Bergen. Cammino sola inseguendo i profumi e mi perdo tra le bancarelle. Street-food al salmone. Ragazzi italiani e spagnoli che lavorano al porto mi raccontano che lì vicino c'era una chiesa ma tempo addietro un Black Metal norvegese, un certo Burzum l’ha incendiata, questa e altre chiese. Prima di chiamarsi Burzum si chiamava Varg (Vikernes), che significa lupo, e prima di chiamarsi Varg si chiamava Kristian, ma alcuni lo chiamavano Count Grishnackh, l’orco. Burzum fra l’altro ha ammazzato Øystein Aarseth, anche lui un Black Metal, norvegese o lappone; dice Varg che ha dovuto ammazzarlo, con 23 coltellate, per difendersi, sì, perché Øystein voleva torturarlo nel bosco e filmare la sua morte. Pure Øystein, o Euronymous, o comunque si chiamasse, incendiava le chiese ed era malvagio. Anche lui? Si, anche lui, e anche la sua setta, l'Inner Circle. Profanavano tombe e sacrificavano umani. AAARRGGGHHH!!!

ICEBERG-DI-VETRO
Condividere i progetti di una band che installa un impianto di amplificazione da far schiattare di invidia Willy il Coyote in un garage di Metal-lamiera foderata di teschi richiede un certo spirito di adattamento. Decidono di allungare ulteriormente il viaggio con una deviazione di duecento chilometri per andare a Oslo dove c’è un tal amico Metal che conosce altri Metal che… Faccio un giro in città, il teatro dell'Opera sembra un iceberg di vetro e metallo, inquietante, mentre la fortezza di Akershus è fra le poche architetture antiche sopravvissute, d’altronde qui costruiscono tutto in legno e quando è finita l'epoca degli incendi accidentali è cominciata quella degli incendi Black Metal.

SPUNTONI-BIONDI
Nel locale Metal di Oslo i miei compagni di viaggio chiacchierano con un tipo dall’impermeabile nero, calvo e sdentato, Metal-rabbioso direi, spero che Varg sia ancora in galera. Non capisco una parola e aleggia un odore di sudore norvegese [esiste?]. “Scusate vado in bagno”. Mi sento più al sicuro in questo metro quadrato puzzolente e mi perdo a leggere le scritte ma capisco poco e decido di tornare al tavolo, da “Varg”. Apro la porta e... OOOHHH! IT'S WONDERFUL!!! Davanti a me, nell’antibagno, si agita una testa bionda piena di spuntoni ossigenati. È giovane, bella e raggiante, un’esplosione di vita. Indica la mia testa fucsia, cerca qualcosa nella borsa e strilla hairdresser!, hairdresser! Vuole farmi i capelli. Usciamo dal bagno fianco a fianco: lei con spuntoni biondi e io con spuntoni fucsia. Mi trascina al suo tavolo e mi presenta: MY ITALIAN FRIEND. Ridiamo. Siamo contagiose. Abbraccio tutti, è una babele di lingue ma ci capiamo.
FUCSIA-IT'S WONDERFUL!
