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In viaggio sulla Trochita della Patagonia

Il Viejo Expreso Patagonico porta ai confini del mondo

La Trochita, conosciuta come Viejo Expreso Patagonico, seduce viaggiatori e turisti d’ogni provenienza e in passato ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della Patagonia, tanto che il governo argentino nel 1999 l’ha proclamata monumento storico nazionale. Nel 1995 è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità

Trochita
© © Jeorge Gobbi / 07-07-13 / Flickr

Il piccolo treno che porta negli spazi sconfinati dell’estremo sud.

La Trochita, dal termine "trocha angosta", che sta a indicare lo scartamento ridotto dei binari, in questo caso di 75 cm, oggi percorre circa la metà degli oltre 400 chilometri originari, sostando in tre stazioni: El Maitén, Nahuel Pan ed Esquel
Il primo viaggio della Trochita risale al 1922 con partenza da Esquel nella provincia di Río Negro e destinazione Ingeniero Jacobacci nella provincia di Chubut, la città che ha preso il nome dall’ingegnere italiano a capo del progetto “Espresso Patagonico”. 
La linea ferroviaria, completata nel 1945, per decenni trasporta merci, animali e lana, attivando fino a sei treni al giorno per la Argentine Southern Land Company, il cui territorio produttivo attraversava un centinaio di piccoli paesi. I lavori di costruzione della linea richiesero più di mille operai, immigrati da ogni parte del mondo. Molti di questi si trasferirono definitivamente in Patagonia con le loro famiglie, integrandosi nel freddo mondo dell’estremo sud. Con il loro duro lavoro costruirono un ponte sul fiume Chico, lungo circa 105 metri e una galleria di circa 110 metri, affinché il percorso dei binari potesse proseguire nell’interminabile steppa. Sperduti paesi in cui la “carretera” non arrivava si ricollegarono al mondo grazie al trenino. Negli anni Settanta l’asfalto e i camion mettono in crisi il trasporto ferroviario e negli anni Novanta la politica delle privatizzazioni assesta il colpo di grazia a questa linea ferroviaria leggendaria.  

Trochita Esquel
© Shutterstock - Jorge Gobbi/ 07-07-13 / Flickr -Shutterstock

Sulla banchina di El Maitén un lungo fischio, spesso coperto dal rumore del vento, ti avvisa che il treno sta partendo.

Il pittoresco convoglio a vapore, con carrozze di legno e stufe in ghisa che aiutano a sopportare il freddo, lentamente si allontana dalla stazione e viaggia a circa 600 metri di sopra il livello del mare, attraversando altipiani e costeggiando laghi incantevoli circondati da foreste, steppe e zone semidesertiche. Puoi goderti con calma il paesaggio perché la velocità della piccola locomotiva a vapore non supera i 60 chilometri orari. Hai quindi il tempo per adattarti ai repentini cambi di temperatura e di osservare gli immensi greggi di pecore o i guanachi e gli struzzi, che si divertono a occupare i binari per poi filarsela quando il treno arriva vicino. In passato, quando la percorrenza era di circa venti ore i passeggeri scendevano per sgranchirsi le gambe camminando accanto al treno che viaggiava a passo d’uomo e risalivano più avanti. Ogni curva ti fa sobbalzare e non puoi non pensare alle volte in cui il trenino è deragliato, ben tre volte tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, a causa dei venti che in quella zona soffiano con forza tremenda. Altri deragliamenti furono provocati dal ghiaccio. Una volta, poco lontano da El Maiten, nel 1979, il treno deragliò a causa di uno scontrò con un bue.

Interno Trochita
© Shutterstock - Fotosil / 04-02-15 / Flickr

Gli spazi sconfinati che scorrono nei finestrini della Trochita custodiscono la memoria di personaggi leggendari. 

Ma l’indole calma dei trenini della Trochita è solo apparente perché il loro è un passato colorato dalle vicende della gente eroica che viaggiava verso l’ignoto, dalle rudi abitudini di chi sopravviveva in condizioni ambientali durissime, nell’isolamento e nella solitudine. Un passato disseminato di leggende, come quella di Butch Cassidy e del suo compare, Sundance Kid: si mormora che nella loro fuga dagli sceriffi degli Stati Uniti siano arrivati fin qui. Alcuni sostengono che i due gringo in realtà siano sepolti proprio qui, da qualche parte lungo il percorso del Viejo Expreso Patagonico. Altri assicurano che nei dintorni della stazione di Nahuel Pan gli abitanti discendono dal popolo dei Mapuches (gli Araucani) e li troverai indaffarati nei pascoli o nei mercati dei prodotti artigianali locali o magari intenti ad invocare il loro antico dio Nguillatún. Storia e leggenda si confondono e non ti stupisci più di nulla, nemmeno quando il trenino si ferma davanti ad una staccionata che attraversa le rotaie e il macchinista scende per aprire il piccolo cancello, poi risale sulla locomotiva per far proseguire il treno di qualche metro e scende di nuovo per richiudere prima di ripartire.

Trochita Treno
© Pedro Francisco Suarez / 26-07-24 / Flickr

Forse, una volta giunto all’ultima fermata, a Esquel, avrai voglia di viaggiare ancora, proseguendo lungo l’itinerario del passato.

La Patagonia oggi è devastata dalle privatizzazioni e dallo sfruttamento selvaggio delle sue risorse naturali da parte delle compagnie capitalistiche transnazionali e gli uomini straordinari che l’hanno abitata negli ultimi due secoli sono ormai residui sociali, icone di un mondo scomparso, già consegnato alla storia e al mito. La frontiera sconfinata dell’estremo sud è diventata un [non]luogo, muto scenario paesaggistico per vacanzieri in cerca di emozioni “cartolina”, da consumare frettolosamente senza farsi mai mancare alcuna comodità. Ma la Trochita, che pure non sfugge all’inclusione nel circuito del turismo globalizzato, offre ancora oggi (solo a coloro che hanno ancora la capacità di osservare) l’occasione di superare il mero orizzonte del paesaggio, di rivedere la Patagonia di un tempo attraverso i segni lasciati da quegli uomini coraggiosi che, negli ultimi due secoli, hanno tentato la fortuna nell’ultima frontiera, ai confini del mondo, affrontando deserti, praterie, foreste, ghiacciai e distanze incalcolabili.

Trochita Patagonia
© Shutterstock

E allora, se sceglierai di vivere il viaggio fino in fondo, forse ti sembrerà di vedere aggirarsi fra i vagoni i personaggi creati dallo scrittore argentino Raúl Argemí nel suo Patagonia Ciuf Ciuf [edizioni Nuova Frontiera 2008], Haroldo e il suo compare Genaro (che si danno i soprannomi del bandito Butch Cassidy e Juan Batista Bairoletto, che fu un vero Robin Hood della Pampa), nel loro tentativo, prima di assaltare la locomotiva per liberare il loro compagno Beto e poi di fuggire nella steppa con il bottino. E nella tua immaginazione la carrozza diventerà il teatro di eventi stravaganti

Trochita Expreso
© Shutterstock

La Trochita “è trainata da una locomotiva tedesca Henschel o, in alternativa, da una locomotiva belga Baldwin, che anche oggi riempiono i loro serbatoi con 4.000 litri d’acqua, rifornendosi a pompe dislocate sul percorso ogni 45/50 chilometri. I vagoni sono ancora tutti in legno, costruiti in Belgio, spartani. Per difendersi dal freddo polare che d’inverno attanaglia la regione, i viaggiatori hanno a disposizione in ciascun vagone una stufa a legna che essi stessi provvedono ad alimentare e sulla quale bolle in permanenza la teiera con l’acqua per il mate, il tè di erbe al quale nessun argentino rinuncerebbe mai. C’è anche un vagone ristorante, con tavoli e sedie di un assortimento talmente eterogeneo da sembrare acquistati da un robivecchi. Non ci sono né una tovaglia, né un piatto, né un bicchiere e neppure una posata uguali agli altri”.

[Giusy Fruscione | Famiglia Cristiana online]

Life Callout

“In Patagonia sostengono che fare dietrofront e tornare indietro porti sfortuna, perciò ligi alle usanze del luogo andammo avanti, perché il nostro destino è sempre avanti”

Luis Sepulveda | dal libro “ULTIME NOTIZIE DAL SUD” edizioni Guanda anno 2011

"Sapevamo che la Trochita partiva da El Maitén il martedì con patagonica precisione, fra le otto del mattino e mezzogiorno, e che dopo aver raggiunto Esquel ritornava il giovedì, mettendosi in marcia con identica puntualità per ripercorrere al contrario i trecentocinquanta chilometri a cui erano stati ridotti, dopo le privatizzazioni e la morte delle ferrovie argentine, gli originari millesettecento del Patagonia Express. Quella mattina la stazione appariva stranamente deserta. Da quanto ci risultava, il vecchio treno continuava a essere l’unico mezzo di trasporto per gli abitanti di El Maitén che dovevano andare a Esquel a comprare beni di prima necessità, a farsi vedere dal medico o a lottare contro la burocrazia. La biglietteria era chiusa e così cominciammo ad aggirarci per la stazione senza incontrare nessuno, finché non arrivammo davanti all’officina e sentimmo la musica di una radio e delle voci. Era un capannone enorme e là, fra tonnellate di metallo arrugginito, una locomotiva a vapore che mostrava parte delle sue viscere d’acciaio e tre vagoni di legno, scorgemmo un gruppo di uomini vestiti con la classica tuta blu dei meccanici. «Cosa raccontate di bello, ragazzi?» ci salutò uno di loro vedendoci. Rispondemmo al saluto e subito fummo invitati a bere mate e a mangiare pane e formaggio. «Possiamo sapere cosa vi porta da queste parti?» chiese un altro. «Il treno. Ci hanno detto che partiva oggi per Esquel».  «Eccolo, ragazzi. Il vecchio Patagonia Express. Volete farci un giro?» disse uno dei ferrovieri. Ci guardammo a vicenda, guardammo anche il treno che sbuffava per la voglia di partire verso la steppa e stringemmo forte la mano a quegli uomini che esibivano l’orgoglio più sano del mondo, quello del lavoro ben fatto, quello di essere parte di un insieme indispensabile: l’orgoglio di classe, semplicemente. «I gringos sono andati verso nord, perciò noi andremo a sud» disse il macchinista. Allora il mio socio ebbe l’idea più brillante. «E se avvisassimo la gente del paese che c’è il treno?». Ed esattamente due ore dopo, con perfetta puntualità, la locomotiva mandò sbuffi di vapore che bagnarono di nebbia le banchine, il fochista cominciò a buttare palate di carbone nella caldaia e noi ci accomodammo sulle due carrozze in mezzo a una cinquantina di persone felici di poter nuovamente contare sul loro unico mezzo di trasporto. Quel viaggio fu una festa. Quel viaggio fu il più bello della nostra vita, perché era nato dalla determinazione di un gruppo di uomini che, infischiandosene delle rappresaglie che avrebbero subito, avevano deciso che due viaggiatori venuti da molto lontano dovevano essere testimoni del loro amore per il lavoro. Era limpida l’aria della steppa, erano allegri i volti affacciati ai finestrini delle carrozze, era compatta la colonna di fumo che usciva dalla locomotiva, era chiaro e onnipresente il fischio che annunciava il passaggio del treno, era dolce il vigore delle bielle che con tutta la forza dell’acciaio spingevano le ruote, e lo sferragliare del convoglio invitava a bere il mate offerto dal passeggero accanto mentre le conversazioni passavano in rassegna tutte le cose della vita. Fu un viaggio allegro, molto allegro, perché fu l’Ultimo Viaggio del Patagonia Express."

[Luis Sepùlveda dal libro “Patagonia Express” 1999 editore Guanda]